Giuseppe Giusti scrittore (1951)

Giuseppe Giusti scrittore in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693.

GIUSEPPE GIUSTI SCRITTORE

Con la sua tipica maniera di dire cose anche profonde quasi di passaggio e senza insistenza, il Giusti raccomandò, a proposito del Parini, di aver rispetto degli autori studiati non alterandone il vero ritratto neppure per elogiarli e celebrarli. Saggio ed acuto avvertimento a tutti i suoi futuri studiosi da parte di un uomo che, se qualche volta errò nell’interpretazione del proprio animo attribuendo importanza a motivi in esso piuttosto elementari ed ingenui (la tristezza, una certa vena elegiaca e dolorosa), non sopravvalutò mai se stesso e considerò con qualche stupore e diffidenza le lodi piú accese dei contemporanei. E coincidenza fortunata di una bonaria, acuta riflessione con il migliore costume moderno che all’elogio, di origine oratoria, sostituisce il ritratto storico e critico, la precisazione affettuosa e severa del nucleo di una personalità nel suo effettivo valore, nella sua funzione storica, nei suoi inevitabili limiti, senza il timore di togliere fronde di alloro posticce, ma solo temendo di offendere la presenza che si vuol richiamare fra di noi con la falsa attribuzione di meriti non suoi, con il rischio di paragoni con personalità maggiori, che può essere anche il pericolo di una ricostruzione del Giusti prosatore e poeta che non tenga conto della storia particolare della sua opera. La quale, come si sa, dopo lo straordinario successo ed il vero culto del secondo Ottocento – malgrado le punte del Tommaseo e del Guerrazzi –, vide la ritrattazione critica del Carducci (fra ’59 e ’74), che arrivò a rilevare nella prosa giustiana «pedanteria alla rovescia», «pedanteria in maniche di camicia» e insomma un po’ il «manzonismo degli stenterelli», e poi (dopo reazioni e stroncature eccessive) l’esame distaccato del Novecento, il giudizio crociano che sciolse definitivamente, anche se con formula discutibile, l’immagine errata di un Giusti «grande» poeta e «grande» prosatore da paragonarsi, magari con vantaggio, a Leopardi, a Foscolo, a Manzoni. E già il giustiano e giustista Ferdinando Martini, l’amoroso curatore di Tutti gli scritti e dell’Epistolario, nella prefazione del ’23, rettificando lealmente un giudizio del ’94, ammetteva «scrissi allora poeta grande, oggi non lo scriverei»[1].

Il buon senso e la misura giustiana agivano del resto dalle stesse dichiarazioni di modestia eccessiva e non priva di qualche speranza di eccezione: «questo genere di poesia che riguarda i costumi, passa per lo piú come il tempo che l’ha veduta nascere, ed ha la vita breve come il fiore della siepe»[2]. In realtà quella poesia e, in qualche caso, la sua prosa hanno a lor modo resistito e resisteranno, ma nella loro vera natura di brio, di ritmo felice, nella loro vera forza di linea animata, vibrante, ricca di rapide immagini, assicurata da una tecnica precisa e perfettamente adeguata, nella loro capacità di esprimere efficacemente un mondo sentimentale piú vivace che profondo e fortemente legato ad un tempo, ad una tradizione, ad un paese. Non resisterebbero invece se messe su di un piedistallo di grandezza, di profondità, come il volto arguto e sensibile del Giusti rivela tanto piú la sua onesta e casalinga mediocrità messo vicino a quello tempestoso del Foscolo, a quello scavato del Leopardi, a quello altamente sereno del Manzoni.

Non si può chiedere al Giusti ciò che non può né del resto vuole dare, non si può parlare assurdamente di Dante o Leopardi, e neppure di Porta e Belli, tanto piú drammatici e plasticamente potenti.

E si deve anzitutto considerare il timbro genuino del suo animo bonario e sensibile, la sua aspirazione ad una tranquillità civile, ad una saggezza fra cultura ed esperienza («Sapienza ed Ussero» indicava per una buona formazione dei giovani), ad un ordine libero e regolato. «Il gran punto è di sapere se noi uomini siamo stati messi al mondo per vivere in pace e alla buona, o per vivere in guerra e alla brava», dice il Giusti in un brano di prosa intitolato significativamente «Dell’aurea mediocritas»[3], e basta anche pensare alla facilità con cui il suo animo «si addolcí» e si spianò di fronte agli avvenimenti propizi del ’47-48 per comprendere come egli tendesse soprattutto ad una condizione di seria tranquillità, di attivo agio, di ordinato progresso, di moderato equilibrio, anche se la sua ispirazione – come vedremo – si eccita e si libera soprattutto nel desiderio piú che nel possesso di questa condizione e nella ironica rappresentazione della mancanza di buon senso, del limite rappresentato dalla sciocca malvagità, dallo zelo inopportuno, dal vile, interessato conformismo, dal demagogico disordine dei rivoluzionari in permanenza.

L’animo fine, naturalmente nobile, umano del Giusti, insofferente di ogni abuso e di ogni eccesso, tendeva ad una condizione di moderazione in ogni lato della vita e tale condizione – non eroica, non drammatica, non tormentosa – egli sentiva a suo modo con serietà, con costanza e con una sorta di venerazione commovente per il mito del «buon senso», della tolleranza, dell’onestà non chiassosa, della sobrietà, per la loro incarnazione in opere d’arte (Orazio, le Odi del Parini, i Promessi Sposi), in persone (Gino Capponi), persino in paesaggi (il paesaggio educato e sobrio della Toscana), in forme di vita, di politica, di poesia. Animo, d’altra parte, sensibile, delicato, capace di sentire, insieme ai motivi della sanità e della sincerità che fanno a volte pensare al ben piú vigoroso Carducci (come al Carducci fan pensare certe mosse piú risolute delle poesie giustiane), motivi di sogno e di solitudine ed in un’aura di malinconia pacata, il senso stesso del limite della vita, della morte: «Io non era mai stato testimone di questo fatto solenne, dell’uomo che si diparte dalla vita; e m’era serbata la triste ventura d’imparare cos’è il morire da un uomo al quale vorrei dare tutti gli anni che ho vissuto fin qui e quelli che rimangono. Si resta soli, appoco appoco non ci rimane che andare a raggiungere chi ci lasciò»[4]. Ma anche in questa direzione bisogna dire che – a parte un vago sentimentalismo amoroso anch’esso appoggiato su di un genuino senso della donna come aiuto alla pace, alla tranquilla fruizione della vita – l’animo del Giusti, l’animo dell’uomo originalmente normale, non ha nulla di tormentato, di mistico, né di profondamente appassionato: le grandi parole romantiche non mancano al suo vocabolario, ma suonano esteriori e letterarie e traccerebbe una linea errata nel ritratto del Giusti chi volesse assicurare alle cosiddette Liriche amorose e sentimentali, una volta celebri, un posto illustre nella poesia giustiana o volesse sentirle come profondo contrappeso di un umorismo nato dal dolore. Non che per il Giusti si possa ripetere ciò che in quegli anni scriveva il Leopardi per la mediocre umanità dei Nuovi credenti

né il bel sogno giammai né l’infinito,

o si escluda che il fine animo giustiano abbia avuto dolori, amori, tristezze, abbandoni sentimentali e fantastici; ma si esclude che in questa direzione il Giusti avesse qualcosa da dire di suo, di profondamente suo, che in lui siano esistiti drammi e tormenti capaci di dare alle sue parole una eco profonda e di aprirgli la strada ad una poesia diversa da quella che noi conosciamo ed amiamo negli scherzi. La sua mestizia, il mesto sorriso di cui egli ci parla è soprattutto il riflesso di una sensibilità ed impressionabilità nervosa che semmai – specie quando il Giusti parla di sé in delicati autoritratti, trattenuti da un pudore conscio della nostra vanità («l’io è come le mosche; piú lo scacci e piú ti ronza d’intorno») – conferisce alle sue parole un’attenzione pensosa e quasi un tenue velo di maggiore intimità. Un leggero incresparsi di lieve ansia arricchisce il brio e la sincerità delle parole giustiane, come la consapevolezza dei moventi impuri ed egoistici dell’agire umano provoca una certa tenue mestizia nel sorriso che accompagna le sue satire e la sua polemica contro i costumi e le persone del suo tempo che al «buon senso» onesto e saggio sostituiscono la furberia, l’egoismo prepotente, l’ipocrisia interessata.

Perché, a completare una breve indagine nella vita interiore del Giusti, dobbiamo considerare insieme una autentica disposizione combattiva, di impegno a difesa del sospirato trionfo del «buon senso», per questa civiltà moderata, equilibrata, libera, senza forche e senza piazze in rivolta, senza arcadia e senza satanismo, senza stagni melmosi e senza rupi orride: la civiltà ideale di una prospera e modesta borghesia liberale, riformatrice e colta, tollerante e legalitaria.

Ma anche questa disposizione combattiva («amare, patire, sospirare e sdegnarsi: ecco il nostro destino») non ha punte di violenza estrema, di furia distruttrice, e anche quando si scopre con piú asprezza non eccita nel lettore il tempestoso brivido delle satire che sembrano incenerire l’oggetto colpito.

Quando lo porteranno al cimitero

questo ducaccio finalmente morto,

io prego Dio che gli faccia da clero

un cento d’aguzzini a collo torto;

la ghigliottina sia l’unico cero,

il diavolo gli firmi il passaporto,

se lo piangano i birri in ginocchioni;

noi, metteremo il lutto agli zamponi.[5]

Ecco uno dei massimi di violenza raggiunti dal Giusti, e nessuno, penso, vorrà sentirci la qualità di un attacco capace di farci inorridire. Anche la disposizione combattiva e satirica del Giusti è dunque, nella sua indubbia vitalità e capacità artistica, un sentimento senza violenza sanguigna e drammatica.

Il gusto caricaturale, il compiacimento della situazione umoristica colta in una deviazione del buon senso (e tale è per il Giusti fondamentalmente ogni violenza, ogni ipocrisia, ogni viltà, ogni sopruso: malattia del buon senso, perversione di un naturale istinto «alla vita in pace e alla buona») e soprattutto l’abbandono controllato ad un ritmo che, festoso ed ironico, traduce esso stesso il giudizio, la condanna del poeta del «buon senso», realizzano e trasformano in una particolare intonazione poetica la stessa volontà di colpire e di stroncare. Non direi debolezza, quanto particolare qualità di una disposizione combattiva, morale ed estetica, che chiusa in un cerchio di sentimenti virili, ma senza estremismo e senza drammaticità, si esalta in una vivacissima musica ironica ed estrosa, incontenibile nella sua felicità di immagini comiche, di rapidi colpi pungenti. E d’altra parte, ripeto, capacità combattiva in nome del civile «buon senso», della onestà e della libertà di un «popolo» (in senso ottocentesco e borghese), laborioso ed educato, che si esercita ed ha efficacia in un cerchio storico preciso (la Toscana fra il ’31 e il ’48, vista da un liberale borghese con i suoi poli estremi nei «bacchettoni» lucchesi e nei rivoluzionari inconcludenti, nel Guerrazzi, nel Pigli e nel Balí Sanminiatelli, in Carlo Ludovico e, sui confini, in Francesco IV di Modena), ma che perderebbe ogni efficacia qualora se ne allungasse idealmente il tiro in campo europeo o verso le grandi personalità che pure erano fuori dell’ideale del vivere «in pace e alla buona», fuori del buon senso civile e mediocre; il sempre rivoluzionario Mazzini, il «malpensante» Leopardi, e in campo letterario Byron, Shelley o lo stesso Hugo contro i quali, provincialmente scambiandoli con qualche povero imitatore locale, il Giusti credé a volte di evocare lo spauracchio dell’oscurità, dell’astrattezza, della morbosità, del poeta «trascendentale» e in lotta con il «buon senso». E come il suo paesaggio è quello toscano, come la sua esperienza persino geografica è quella toscana (ad eccezione di un viaggio, specie di «piccolo tour» tradizionale, a Roma e Napoli e una gita a Milano o, meglio, in casa Manzoni, i suoi movimenti non escono dal raggio toscano), come la sua attenzione piú acuta si nutre di episodi toscani, cosí anche nella sua cultura letteraria accurata e per nulla dilettantesca, se Manzoni e Parini sono, insieme a un Dante assai riveduto e corretto[6], i termini della sua maggiore ammirazione e aspirazione, il vero appoggio è costituito dalla tradizione specialmente toscana della satira, degli scherzi, della poesia realistica e comica. Sí, in lontananza Béranger, e Ariosto (con la satira del cortigiano che «con tutto il viso applaude» quando il signore parla), e Rosa e persino l’Alfieri degli epigrammi, ma piú da vicino Menzini, Pananti, Guadagnoli, Berni e persino Pulci e Burchiello nei loro suggerimenti di libertà e di estro, di impasto linguistico umoristico e realistico e, per il gusto del ritmo, il ditirambo del Redi.

A parte le poesie giovanili guadagnoliane, si pensi invece per le vicinanze accennate, bernesche e persino burchiellesche, a poesie come «Tedeschi e Granduca» tutta imperniata sull’abilissimo giuoco ripetuto delle due parole

Una volta il vocabolo Tedeschi

suonò diverso a quello di Granduca,

e un buon toscano che dicea Granduca,

non si credette mai di dir Tedeschi.

Ma l’uso in oggi alla voce Tedeschi

sposò talmente la voce Granduca,

che Tedeschi significa Granduca,

e Granduca significa Tedeschi.

E di fatti la gente del Granduca

vede che tien di conto dei Tedeschi

come se proprio fossero il Granduca.

Il Granduca sta su per i Tedeschi,

i Tedeschi son qua per il Granduca,

e noi paghiamo Granduca e Tedeschi.

Che non è affatto uno scherzo periferico, ma ben rientra nella utilizzazione di modelli di una precisa tradizione cosí adatta al suo temperamento e cosí personalmente superata (in un incontro con modelli piú illustri, da Parini ad Orazio) dalla sua genuina inventività, dalla sua ispirazione di briosa ed efficacissima satira.

Lontano dalla comprensione dei motivi piú alti del romanticismo e del neoclassicismo che sapeva satireggiare solo nei loro margini inferiori di ridicola fantasticheria o di ridicola pedanteria, e semmai aperto alle forme piú civili del romanticismo di scuola manzoniana nell’amore piú semplice del concreto e del naturale, il Giusti dispose, sulla salda base di una umanità schietta e sicura, di una adeguata cultura letteraria e di una tecnica tutt’altro che da dilettante. Palazzeschi parlò con naturale simpatia di «perfezione tecnica» e uno dei punti che piú si debbono segnare all’attivo del Giusti è proprio l’incontro fra una genuina ispirazione di satira del «buon senso», ricca d’estro e di musicale felicità, e una tecnica formata su di un’abilissima scelta di una tradizione, a suo modo compatta e utilizzata per ottenere una fluidità, una capricciosa e pure organizzata letizia di ritmo, di modi e immagini che pare a volte improvvisazione ed è invece riconquista paziente.

Disse il Giusti esprimendo la sua simpatia per la Chiocciola: «ha un ritmo gaio e lesto come un ragazzo» e poche volte un autore aggiustò cosí bene un rilievo critico sulla sua poesia, dette un’indicazione particolare che collima con l’impressione generale del lettore moderno: quegli «scherzi» in cui ispirazione e tecnica collaborano in accordo con il fondo piú vero dell’animo giustiano, funzionando nel rilievo di situazioni ridicole là dove la esperienza e la forza del Giusti eran veramente efficaci e intonate, sono i veri risultati della sua personalità. Dalla Ghigliottina alla Chiocciola, dal Brindisi di Girella al Re Travicello e, in parte, al Papato di Prete Pero, a Gingillino, il Giusti trovò il pieno impiego delle sue limitate qualità, della sua fantasia bonariamente estrosa, della sua inventività di immaginette, di caricature, di situazioni rapidamente delineate senza volontà di indugi e di scavo, e soprattutto di ritmi festosi e pungenti in cui compiutamente si esprime lo sdegno e il sorriso di chi vede dal suo punto di vista di fiducioso «buon senso» tante storture e tante viltà cosí sciocche e cosí antistoriche (e c’era l’orgoglio della borghesia liberale contro i vecchi cadenti regimi) che lo sdegno non può mai essere scompagnato dal riso. Si pensi soprattutto al vivacissimo svolgersi quasi di «moto perpetuo» del Brindisi di Girella in cui l’arruffato e brillante ditirambo del voltagiubba di professione si libera in un comico, inesauribile caleidoscopio di trovate, di fulminei accostamenti di parole in contrasto (Loreto e la Repubblica francese!), di nomi bizzarramente accoppiati

(Luigi, l’Albero,

Pitt, Robespierre,

Napoleone,

Pio sesto e settimo,

Murat, Fra Diavolo,

Mosca e Marengo

e me ne tengo)

con rilievi su cui non ci si può fermare, travolti da questo estro che rialza anche le immagini piú sbiadite e le parole piú comuni con movimenti sinuosi ed elastici, con subite impennate e cadute per nuovi slanci che non sono il semplice brio di un ritmo di accompagnamento esterno, come parve troppo facilmente al Croce nella sua definizione di poesia prosastica.

Negli scherzi migliori, pur non dimenticando il limitato ambito spirituale da cui nascono, i modesti ma sicuri ideali in nome dei quali si scatenano, si può apprezzare un valore che resiste e che, se per essere inteso davvero va ricollocato nelle condizioni storiche in cui si è formato, vale però in sé e per sé, non cade – come temeva il Giusti – con l’effimera vita a cui si rivolse. E resistono le figure create dal Giusti per il piacere dei suoi contemporanei (i birri e la birrocrazia, l’ateo-salmista, l’arrivista forcaiolo e collotorto, l’ipocrita senza scrupoli, i preti idrofobi, il timido beato nel suo vile «particolare») non per una sorta di evidenza plastica e drammatica (i bulli del Belli), ma per il rapido lampeggiare di tratti e di epiteti, fusi dentro un ritratto essenzialmente suggerito dal ritmo comico ed umoristico. Cosí nel Re Travicello la figura del monarca senza bene né male, nella sua comica leggerezza e frivolezza, è soprattutto affidata alla comica musichetta[7] che si svolge pausata e leggera

(Là, là per la reggia

dal vento portato

tentenna, galleggia,

né mai dello stato

non pesca nel fondo;

che scienza di mondo!

Che re di cervello

è un re Travicello!...),

e nel finale del Papato di Prete Pero (l’illusione del Papa liberale in cui pure cadde poi lo stesso Giusti!) la rapida visione della riunione dei re della Santa Alleanza si realizza in un rapido svolgimento tra un accordo vivacissimo di parole che creano fulminee un ritratto («dolce come un istrice») e un inizio di discorso cosí spigliato e deciso, un crescendo di toni e parole sempre piú grosse e gustose e un taglio finale vibrante come uno squillo tragicomico.

No, dicea, non va lasciato

questo papa spiritato,

che vuol far l’apostolo.

Ripescare in pro del cielo

colle reti del vangelo

pesci che ci scappano!

Questo è un papa in buona fede,

un papaccio che ci crede,

diamogli l’arsenico!

E in Gingillino il ritratto dell’apprendista furfante risulta magnificamente mediante una sequenza di versi ammiccanti e ricchi di accenti e di mosse interne, disinvolti ed eccitati, dinoccolati e fluenti, pieni di rapide allusioni quasi da gergo furbesco, di improvvise fratture

Piglia quel su e giú del saliscendi;

quell’occhio del ti vedo e non ti vedo;

quel tentennio, non so se tu m’intendi:

che dice sí e no, credo e non credo;

e piglia quel sapor di dolce e forte,

che s’usa dal bargel fino alla corte...

[...]

... Andò, si scappellò, s’inginocchiò,

si strisciò, si fregò, si strofinò;

e soleggiato, vagliato, stacciato,

abburattato da Erode a Pilato,

fatta e rifatta la storia medesima,

ricevuto il battesimo e la cresima

di vile e di furfante di tre cotte,

lo presero nel branco e buona notte.

Fuori di questo periodo singolarmente propizio, di questa condizione particolare, invano cercò il Giusti di superare i suoi migliori risultati, dopo gli anni felici fin verso il ’45. Cercò di allargare la struttura delle sue poesie o nel tipo quasi novellistico del Sortilegio o in brevi abbozzi di commediola a dialogo (I discorsi che corrono, Le piaghe del giorno, La guardia civica) che sembrano preludere al Fucini, e soprattutto (riuscendovi solo in parte nel Sant’Ambrogio, dove la misura di toni fra serio e comico, fra sentimentale e burlesco limita quanto vi è pur di fiacco nell’andamento generale) il Giusti cercò di adeguare con modi meno brillanti, piú riposati, e quasi solenni la nuova situazione del suo animo che si veniva aprendo a una speranza piú facile, ad una certa euforia tipica di quell’epoca di generoso e generico embrassons-nous: guardia civica, costituzione, principi improvvisamente liberali, papa liberale, largo ottimismo e persino la speranza del S. Ambrogio di un abbraccio fraterno con gli oppressori-oppressi e con tutti gli stranieri una volta allontanati dall’Italia.

E contemporaneamente la sua poetica della naturalezza e della semplicità, che sempre piú era suggestionata dalla sua somiglianza in chiave minore con la grande scuola del Manzoni, esagerava la sua punta verso una facilità discorsiva (L’amor pacifico), piacevole, ma senza il piglio, il fervore che negli Scherzi precedenti, se poteva anche a volte sbrigliarsi a vuoto, era spesso capace di sollevare la poesia del buon senso ad autentico estro. Estro che riaffiora in certi avvii

(Su, Don Abbondio, è morto Don Rodrigo,

sbuca dal guscio delle tue paure...)[8]

o esplode nel finale di Delenda Carthago mediante la ripresa e l’acceleramento finale di un ritornello incisivo.

(Scriva: vogliam che ogni figlio di Adamo,

conti per uno: e non vogliam Tedeschi;

vogliamo i capi col capo; vogliamo

leggi e governo: e non vogliam Tedeschi.

Scriva: vogliamo tutti quanti siamo,

l’Italia, Italia e non vogliam Tedeschi.

Vogliam pagare di borsa e di cervello:

e non vogliam Tedeschi e a rivedello...),

ma che in genere, dal S. Ambrogio in là, è appesantito in una poesia piú lenta e senza fuoco, meditata e seria, ma ispirata da un animo meno fresco e meno pungente, meno festosamente combattivo.

E quando in poesia il Giusti volle rivolgersi contro i demagoghi o quelli che lui tali stimava, sul pernio essenziale del «buon senso» finalmente libero di avere cittadinanza persino nel governo e nello stato, il rovesciamento di fronte in difesa di un «popolo» (borghesia e artigianato) che,

libero tra licenza e tirannia

al volgo in furia e al volgo impastoiato

segna la via,

poeticamente non ebbe effetti notevoli. La felicità nativa che lo aveva assistito ai tempi di Girella o di Gingillino non ritornò ad animare le sue poesie, anche se l’uscire dal breve e generoso idillio del ’47 e primo ’48[9] e il riprendere un atteggiamento di polemica sembravano riportare il Giusti nella sua condizione migliore, fra speranza di «vita in pace e alla buona» e ironia sulle ragioni ridicole e spregevoli della sua mancanza dovuta alla stoltezza e all’incomprensione di uomini: prima i tiranni, poi i demagoghi e gli estremisti a cui finí per attribuire anche le nuove colpe dei vecchi padroni tornati a regnare, quando temeva persino il prossimo trionfo del comunismo di Cabet e vedeva nei rivoluzionari toscani gli agenti provocatori della tirannia!

Ciò che non riuscí al Giusti nella sua poesia di questo secondo periodo riuscí invece, su piano nettamente inferiore agli Scherzi, nella prosa di quel singolare libretto incompiuto che è la Cronaca dei fatti di Toscana dal 1845... Qui il Giusti toccava di nuovo il suo terreno, si rinchiudeva nel suo cerchio limitativo e fecondo e proprio il titolo stesso (con qualche aria fra Compagni e Guicciardini) indica bene l’interesse particolare, il limite geografico e il limite di prospettiva anche volontario: cronaca e fatti. E questa vicenda di fatti e fatterelli (non la cultura di quegli anni, non le idee e non una prospettiva italiana ed europea verso la quale il suo occhio consapevole della propria intensità non si volgeva) trova di nuovo un legame, un ritmo minuto e certo piú angusto di quello piú arioso e fresco degli scherzi migliori, ma tale da fare fluire con continuità piacevole questa prosa appuntita, piena di rapide scenette, di ritrattini pungenti, di allusioni e di brevi lampi di sdegno in una specie di raccorciamento gustoso in tempi brevi, in agili trapassi.

Ancora una volta l’interesse umano, il tipico sguardo sulla realtà si accordavano e si esprimevano artisticamente anche se con il pericolo di una eccessiva gustosità, di una abbondanza stucchevole di modi di dire rapidi, di proverbi bene azzeccati che aveva fatto parlare il Carducci di pedanteria alla rovescia: eccesso di naturalezza ricercata e troppo sapiente. Come questa serie di modi di dire e di paragoni gustosi che incoronano un finale di periodo come una salva di mortaretti: «Nella carestia l’accattone tira via col suo mestiere, ed anzi il caro è per lui una specie di giubileo, avendo una miseria di piú da farsi credere e da trarne elemosina. Cosí i predicanti da un tanto per predica, vanno a nozze se trovano un passo di piú da citare, il becchino sguazza al tempo della moria: l’ombrellaio quando piove dirotto, il vetraio se grandina o tira vento». Ma si senta fra le scenette narrate nella Cronaca la descrizione del fallito tentativo clericalgranducale di mettere su in Pisa un convento di suore del Sacro Cuore: «Ma perché tanto sospetto di queste gesuitesse o suore del sacro cuore, come le chiama la regola? Perché esse sono come le rondini dei gesuiti. È del loro istituto, che non possono confessarsi che da un gesuita: dunque venute esse, è necessario che venga anche un gesuita, almeno ogni tanto alla raccolta dei peccati. Ma un gesuita non va mai scompagnato, perché la regola di S. Ignazio, o di chi per lui, vuole che vadano a coppia, un sacerdote e un converso. Massa Ducale aveva allora una casa di gesuiti. Di là, per le ricorrenze dette sopra, sarebbe venuto il padre confessore col fedel compagno, e poi strigate le coscienze delle suore, tornato al nido di dove era venuto. Ma questo andare e venire sarebbe alla lunga tornato un po’ incomodo al padre reverendo e all’accompagnatura; la salute, il tempo, la spesa potevano richiedere che al reverendo padre venisse assegnato uno stanzino per pernottare e un bugigattolo all’accolito per lo stesso bisogno. Poi le suore potevano crescere e due orecchi soli non bastare al pissi pissi dei loro scrupoli. Allora un altro coscienziere e un altro serviziale e due altri stambugi per la coppia di soccorso; e di questo gusto, a mano a mano, tre, quattro, sei coppie di padri, un piano di casa o due al loro servizio, e alla fine un convento di Gesuiti in Pisa. Tu dammi un dito e io piglierò la mano: ecco detto»[10].

Prosa di singolare efficacia nelle sue pause maliziose, nel suo crescendo preciso ed ironico e nella chiusa cosí sobria e piacevole: qualcosa di simile – ma piú moderato e minuto – al ritmo degli Scherzi e traduzione espressiva coerente di una situazione comica e insidiosa di fronte a cui lo sdegno per l’ipocrita tattica di una sapienza secolare si colora di comicità, di sorriso come nella creazione di Girella, di Gingillino, del frate che esalta la ghigliottina a vapore e del Tiberio in diciottesimo che ne invidia l’inventore.

E nel finale della caduta del governo Guerrazzi (Guerrazzi l’idolo polemico della Cronaca come il Capponi ne è l’eroe –, in realtà assai sbiadito come riescono sbiadite le figure ammirate e reverende nei ritratti giustiani) si può apprezzare l’incontro di rapidi disegni, di scenette da opera buffa in cui l’antipatia e il giudizio negativo del Giusti si fondono con il superiore gusto di scherzo e di rilievo umoristico di una personalità retorica e senza «buon senso». Prima il disegnino del Guerrazzi che guarda dai mezzanini di Palazzo Vecchio («Il popolo, sempre affastellato sotto le finestre, chiamava alla terrazza i nuovi governanti, udiva la lettura di un proclama e applaudiva. Dagli applausi tornava alle ingiurie contro il Guerrazzi, che di dietro alle persiane dei mezzanini vedeva e udiva tutto»), poi il dialogo interrotto fra l’eloquenza guerrazziana e l’ira popolana («Il Zannetti, salito alle stanze del Guerrazzi, lo chiamò sull’uscio, ed egli venne franco piú che poté, e cominciò a dire «Non so d’aver fatto nulla al popolo fiorentino perché mi abbia...». Ma non poté proseguire, ché fu coperto dalle grida e dagli insulti «Stia zitto lui, stiamo zitti anche noi: siamo venuti per vederlo e non per sentirlo»), infine l’ultimo tratto ridicolo in cui la figurina guerrazziana si scioglie: «La mattina del dí 13 il Guerrazzi, sempre chiuso in Palazzo Vecchio, mandò a dire alla Camera che egli, accusato per ladro, non aveva da mandare in piazza a fare la spesa, e che gli facessero sborsare 1000 lire che doveva avere dallo Stato per un mese di provvisione...»[11].

Cosí il prosatore veniva a chiudere nella Cronaca (piú che in molte lettere cincischiate per falso amore di naturalezza e di lingua manzonianamente toscana) il cerchio di felicità espressiva aperto e sollevato dagli Scherzi.

Lontanissimi ormai dagli entusiasmi dell’Ottocento (quando persino il De Sanctis nella prefazione al suo saggio sul Leopardi si rammarica di non essersi potuto occupare nella letteratura del secolo XIX soprattutto del Giusti «degno di uno studio apposito e maturo»), e decisi a considerare il Giusti come un «minore», crediamo però che una lettura storica spassionata possa assicurare al cronista della Toscana prequarantottesca e al vivace ed abile poeta del «buon senso» una sua vita e una sua durata, come al creatore – nei precisi limiti indicati, e in una dignità artistica tutt’altro che dilettantesca – di un piccolo mondo brioso di figure amaramente comiche, animate da un ritmo estroso e sicuro che traduce artisticamente la bonaria satira legata ad un senso di valori umani («le vere vittime sono i carnefici»!) – di un uomo che seppe insegnare a disprezzare, sia pur sorridendone, «chi sa con l’anima giocar di schermo».

(1950)


1 Pref. a G. Giusti, Tutti gli scritti, a cura di F. Martini, Firenze 1923, p. XXVI.

2 Pref. ai Versi, Tutti gli scritti cit., p. 10.

3 Tutti gli scritti, p. 394.

4 G. Giusti, Epistolario, Firenze 1932, I, p. 510.

5 Per la morte di Francesco IV di Modena.

6 Molto risentito anche da un punto di vista di interesse linguistico intonato agli interessi di quegli anni fra il Becchi e la Crusca.

7 Come dice A. Momigliano, Storia della letteratura italiana, Messina 1936, p. 525.

8 Alli spettri del 4 settembre 1847.

9 «Tu non puoi sapere con che gioia io vidi nascere la vita nuova nel settembre dell’anno ’47, quanta fede in Pio IX, quanta nella Toscana, quanta nelle armi piemontesi... [vedeva] a grado a grado, le genti sparpagliate farsi nazione e crescere di prosperità, di potenza e di grandezza e per continui svolgimenti acquistare di bene in meglio quell’altezza di civiltà che si sente nel pensiero piú assai che non si possa dire a parole...», Epistolario, III, p. 251.

10 Tutti gli scritti cit., p. 259.

11 Tutti gli scritti cit., p. 290.